A cura dell’ Avv. Teresa Talarico e dell’ Avv. Margherita Federico
Nel corso degli ultimi anni, si sta espandendo a macchia d’olio il numero dei procedimenti penali avviati nei confronti di insegnanti per reati come l’abuso dei mezzi di correzione (art. 571 c.p.) o quello, ancor più grave, di maltrattamenti (art. 572 c.p.).
La casistica è pressoché ricorrente: il docente si vede recapitare una richiesta di chiarimenti dal dirigente scolastico, se non proprio l’avvio di un procedimento disciplinare dall’Ufficio Scolastico Regionale, con cui gli si contesta di aver adottato comportamenti illeciti, da un punto di vista morale e/o fisico, nei confronti dell’ alunno.
Nella maggior parte dei casi la richiesta fa seguito alla segnalazione dei genitori, i quali sporgono denuncia e/o querela nei confronti dell’insegnante per condotte di reato di abuso dei mezzi di correzione o disciplina posti in essere durante l’orario scolastico e perpetrati a danno dell’alunno.
Ovvio che, già solo sotto il profilo semantico, il termine “abuso” in relazione ad un comportamento o un oggetto implica necessariamente che dello stesso, in via ordinaria, sia consentito un “uso” in capo a soggetti che ricoprono posizioni di autorità essendo a ciò legittimati dal c.d. ius educandi o corrigendi.
Con riferimento al contesto scolastico rientra, dunque, nel ruolo dell’educatore il potere e dovere legittimo di utilizzare, se necessario, mezzi di coercizione onde impartire all’alunno un’adeguata educazione e correggerne i comportamenti che non rispondono alle regole del diritto o della civile convivenza.
Se è vero, quindi, che esiste il dovere educativo degli insegnanti è pur vero che lo ius educandi non può e non deve risultare in contrasto con altro diritto fondamentale della persona quale quello “inviolabile” alla libertà personale e morale, che si pone anche come necessario e logico presupposto per l’esercizio di qualsiasi altro diritto costituzionalmente riconosciuto.
Di questa circostanza si è reso conto il nostro legislatore che, nell’intento di apprestare un’adeguata tutela al predetto inviolabile diritto ed escludendo qualunque prevalenza di esso sullo ius educandi, ha introdotto nel codice penale l’art. 571 evocativamente rubricato “abuso dei mezzi di correzione e disciplina”.
Con questa norma incriminatrice, il conditor legis, volutamente ricorrendo al termine abuso, ha sotteso che l’utilizzo dei mezzi di coercizione da parte dell’educatore nei confronti dell’alunno è lecito purché esso non travalichi determinati limiti oltre i quali l’uso si trasforma in abuso e non può più, dunque, ritenersi legittimo.
Quali sono i limiti entro cui tale ius educandi possa essere esercitato? Quand’è che si può parlare di condotta educativa e quando, invece, si va oltre il consentito?
Proprio su questo aspetto è stata fondamentale l’evoluzione esegetica condotta negli anni dalla giurisprudenza di merito e di legittimità che ha elaborato una serie di principi che ci consentono di poter fare chiarezza sulla norma di cui all’art. 571 c.p. e di comprendere quale è la linea di confine tra la fattispecie di reato e l’uso consentito e legittimo dei mezzi di correzioni.
Costante è la Corte Cassazione nel ribadire, innanzitutto, che l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, previsto e punito dall’art. 571 c.p., consiste nell’uso non appropriato di metodi, strumenti e, comunque, comportamenti correttivi o educativi, in via ordinaria consentiti dalla disciplina generale e di settore nonché dalla scienza pedagogica quali, a mero titolo esemplificativo, l’esclusione temporanea dalle attività ludiche o didattiche, l’obbligo di condotte riparatorie, forme di rimprovero non riservate.
L’uso di essi, sottolinea la Suprema Corte, deve ritenersi appropriato quando ricorrono i seguenti presupposti: a) la necessità dell’intervento correttivo, in conseguenza dell’inosservanza da parte dell’alunno dei doveri di comportamento su di lui gravanti; b) la proporzione tra la violazione e l’intervento correttivo adottato, sotto il profilo del bene-interesse del destinatario su cui esso incide e della compressione che ne determina. (Cass. Sezione Penale VI- Sent. n.11777 del 09.04.2020)
In altri termini, si deve cercare di operare un esatto bilanciamento tra la finalità rieducativa e la finalità retributiva della pena, tipiche della miglior dottrina giuspenalista.
Se tanto non avviene, l’insegnante si troverà a dover rispondere in sede penale del reato di abuso dei mezzi di correzione o disciplina di cui all’art. 571 c.p. o, qualora l’abuso assuma caratteri di sistematicità e ricorrenza nel tempo, anche attraverso forme di violenza fisica o morale, del più grave delitto di cui all’art. 572 c.p.
Tuttavia, la condotta – per la quale è sufficiente anche il semplice dolo eventuale- risulterà punibile soltanto ove tale abuso cagioni alla persona offesa quanto meno il pericolo di una malattia del corpo o della mente. Condicio sine qua non per la punibilità della condotta è, quindi, che l’agente metta la persona offesa in pericolo di subire ripercussioni fisiche o psicologiche.
Tutto ciò, si ritiene doveroso precisare, senza che il potere d’intervento dell’educatore, per timore di affrontare procedimenti penali, venga tanto ridotto da sminuire oltremodo il prestigio e l’autorevolezza di questa importante figura. Non si deve dimenticare, dopotutto, che se nel contesto scolastico il termine utilizzato per riferirsi all’educatore è quello di “maestro” -dal latino magister, ossia colui che, eccellendo in una qualche disciplina, si è reso degno di rispetto- un motivo vi sarà!
Il tema si incentra, quindi, sulla possibilità, utilità e legittimità dell’utilizzo dello ius corrigendi.
Proponiamo, pertanto, una nuova chiave di lettura del diritto in questione, che è stato fin’ora affrontato come tutela dell’educando che non deve subire l’abuso del potere di correzione, ma che invero presuppone un altro titolare del diritto in commento proprio nell’educatore il quale, nel contesto scolastico, da sempre ma in modo diverso nelle varie epoche, è chiamato non soltanto a trasmettere la conoscenza ma pure ad “insegnare” il giusto comportamento, le regole della convivenza civile, il rispetto per le istituzioni ed ogni altro corretto comportamento che deve appartenere a chiunque viva in una comunità regolamentata.
Ma cosa è cambiato nel ruolo dell’insegnante rispetto a una volta?
Sono stati certamente banditi l’immancabile bacchetta , usata dagli insegnanti come strumento didattico e allo stesso tempo come arma punitiva, le umiliazioni fisiche, quali le tirate d’orecchio e le sculacciate, le umiliazioni morali come il castigo delle orecchie d’asino o l’isolamento dietro la lavagna.
Difatti, appurato che, oltre ai danni fisici che potevano ledere il discente, queste punizioni corporali potevano innescare dei gravi danni psicologici all’ individuo nella fase di crescita, è sicuramente stato un “bene” che, nella maggior parte dei paesi del mondo, l’evoluzione sociale abbia imposto un cambiamento radicale del modus educandi ed il sistema punitivo sia stato così sostituito con metodi pedagogici e psicologici più adatti al percorso di crescita dei più giovani.
La Carta Sociale Europea, infatti, aveva già vietato nel 1961 le punizioni corporali nelle scuole, senza però che questo avesse reale impatto, nei diversi paesi, sulle “tradizioni educative” nazionali .
La punizione corporale è ora vietata nelle scuole in quasi tutta Europa, ma non in molti altri stati degli USA, dove ancora il paddiling, ovvero la sculacciata con una sorta di piccola pagaia, è ammessa. In alcuni paesi asiatici, sono ancora praticati e ritenuti dal corpo docente un buon metodo educativo. In Nuova Zelanda, fino al 2007, era possibile somministrare punizioni corporali ai ragazzi convocando i genitori a scuola e autorizzando questi ultimi, trattandosi di educazione domestica, a portare avanti la punizione.
Diversa l’evoluzione sociale per la nostra Europa dei Diritti, dove questo sistema punitivo non ci appartiene più. Ma già nell’antica Roma troviamo una condanna alla punizioni corporali, scritta dall’oratore Quintiliano nell’Istitutio Oratoria, il più antico e completo manuale di pedagogia, retorica e oratoria a noi giunto. In un lungo passo del trattato (I,3, 14-17), Quintiliano sminuisce le percosse come metodo educativo, ritenendole ingiuriose, adatte agli schiavi e non agli studenti, evidenziando che non è la violenza a scalfire le indoli più svogliate ma un’educazione che renda consapevole l’alunno dei suoi meriti e dei suoi sbagli, tale da fargli assumere la consapevolezza di se stesso.
E’ una fortuna che, oggi, agli insegnanti sia interdetto l’uso della violenza quale metodo punitivo ma è pur vero che una figura importante quale quella dell’insegnante, specie per i numerosi problemi che attualmente vive la nostra società, ha bisogno di essere rivalorizzata e prima di tutto rispettata.
In tutte le epoche, sia che i metodi adoperati fossero pacifici o violenti, non mancava mai il rispetto e la venerazione verso la figura dell’insegnante, che ha sempre avuto il compito e la responsabilità di istruire coloro che all’interno della nostra società rappresentano il futuro, la frontiera del domani.
Questo concetto oggi, però, sembra svanire al punto che i genitori, con troppa facilità criticano e condannano l’operato degli insegnanti, magari per il brutto voto dell’alunno o per il rimprovero all’inosservanza delle regole.
Ancor di più, nell’era del virtuale e soprattutto sotto l’accelerazione dell’emergenza pandemica, alla scuola-istituzione di tipo tradizionale si è affiancata la scuola virtuale della Didattica a Distanza (DAD), la scuola-social dei nuovi rapporti tra coetanei ed anche il rapporto tra la scuola e genitori vive una fase di crisi che si acutizza sempre più a causa del grave problema di ingerenza e pressione da parte delle famiglie -certamente non tutte, per fortuna!-, che ora, grazie agli schermi dei tablet e dei pc dei loro figli, sono riusciti ad “entrare” letteralmente “in classe”, assistendo alle lezioni, giudicando i metodi di insegnamento, lo sviluppo dei programmi, l’empatia/antipatia degli insegnanti.
I decreti delegati del 1974, hanno introdotto la partecipazione di genitori e studenti alla vita della scuola con l’intento di ‘democratizzare’ questa Istituzione e di creare un utile confronto scuola/famiglia “Sugli obiettivi strategici dei percorsi formativi, sui problemi e sulle possibili soluzioni, al fine di condividere la responsabilità del ben-essere dei giovani”, ma pur sempre nel rispetto dei ruoli specifici di ciascuno.
Esiste un confine, dunque, che va rispettato e che purtroppo pare si stia perdendo. Forse il compito, oggi, è proprio quello di ripristinare quella linea di separazione che, per quanto mutevole, deve continuare ad esistere.
La famiglia deve tornare a vedere nella scuola il completamento naturale dell’educazione familiare, l’alleato con cui educare i figli a divenire oltre che brave persone anche bravi cittadini, il luogo di parità ed eguaglianza sociale, di riscatto e opportunità future per i propri figli, di affermazione del merito di ciascuno, una palestra di vita dove preparare gli uomini ed i cittadini del domani!
“A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena di essere vissuta”
Cit. Alessandro Magno ad Aristotele.
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