Commento a cura dell’Avv. Lilia Cianfrone e dell’Avv. Simona Vitale
La Sentenza in esame offre lo spunto per affrontare la tematica delle false accuse che si innescano nell’ambito delle dinamiche processuali che involgono la crisi familiare .
Tra le accuse più ricorrenti, nei procedimenti di separazione e divorzio ad alto tasso di conflittualità, le storie dei Tribunali annoverano quelle che hanno ad oggetto gli abusi sessuali a danno dei minori ; trattasi di accuse gravi ma il più delle volte di false accuse inscenate al sol fine di strumentalizzare la genitorialità per ottenere vittorie “sul campo dell’ affidamento.”
Nel contesto di cui trattasi , la voce accusatoria principale è rappresentata da quella del minore : sorge allora la necessità di valutare l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese da quest’ ultimo che possono essere la risultante di un consapevole mendacio, quale risposta allo stress emotivo vissuto in conseguenza delle conflittualità genitoriali , oppure la ripetizione inconsapevole di un copione predisposto dall’altro genitore o anche l’effetto di una realtà fraintesa dal minore stesso per essere questi l’ involontario veicolo di altrui sospetti .
Il problema del “fraintendimento” dei minori in correlazione con la tematica delle denunce di abusi sessuali è’ stato già affrontato in passato dalla Cassazione : “ è sperimentalmente dimostrato”, dichiarano i Giudici di legittimità, “che un bambino, quando è incoraggiato e sollecitato a raccontare, da parte di persone che hanno una influenza su di lui ( e ogni adulto è per un bambino un soggetto autorevole), tenda a fornire la risposta compiacente che l’interrogante si attende e che dipende, in buona parte, dalla formulazione della domanda. Si verifica un meccanismo per il quale il bambino asseconda l’intervistatore e racconta quello che lo stesso si attende, o teme, di sentire; l’adulto in modo inconsapevole fa comprendere l’oggetto della sua aspettativa con la domanda suggestiva che formula al bambino. In sintesi, l’adulto crede di chiedere per sapere mentre in realtà trasmette al bambino una informazione su ciò che ritiene sia successo. Se reiteratamente sollecitato con inappropriati metodi di intervista che implicano la risposta o che trasmettano notizie, il minore può, a poco a poco, introiettare quelle informazioni ricevute, che hanno condizionato le sue risposte, fino a radicare un falso ricordo autobiografico; gli studiosi della memoria insegnano che gli adulti “raccontano ricordando” mentre i bambini “ricordano raccontando” strutturando, cioè, il ricordo sulla base della narrazione fatta. Una volta fornita una versione, anche indotta , questa si consolida nel tempo e viene percepita come corrispondente alla realtà.”[1]
La ricostruzione della vicenda processuale dell’ abuso o presunto tale, necessariamente, deve avvenire attraverso un percorso giudiziario che impone una valutazione equilibrata dei diritti relazionali dei soggetti coinvolti, richiedendo un elevato standard di garanzia in contesti che rischiano spesso di risultare stressanti e confusivi e di produrre “effetti negativi sul funzionamento psicologico, sociale e adattivo del bambino sovrapponibili a quelli che si verificano nelle condizioni di abuso realmente esperite”[2] .
Nella sentenza, dunque, si intersecano questioni operanti in ambiti processuali diversi ma, in realtà , assolutamente sovrapponibili in quanto riconducibili all’ unico comune denominatore rappresentato dall’ elaborazione di un progetto orientato all’ estromissione dell’altro genitore dalla vita del minore , attuato attraverso meccanismi fondati su un rapporto fusionale e di simbiosi con quest’ultimo .
Ebbene , se in ambito penale il rapporto simbiotico ed osmotico, l’intrusività debordante di una figura genitoriale e dunque il condizionamento e la manipolazione , una volta accertati giudizialmente come esistenti , impongono di valutare l’ infondatezza dell’accusa quanto ai denunciati episodi di abusi sessuali, in sede civile rilevano quali elementi indicatori “di una genitorialità malata” , gravemente pregiudizievole ad una crescita equilibrata e serena del minore, che impongono al Giudice, indipendentemente dalla valutazione degli aspetti scientifici e patologici della condotta, di adottare opportune e necessarie misure per il riequilibrio della bigenitorialità .
Nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto necessario, al fine di “predisporre un assetto quanto più possibile efficace al risanamento del rapporto del minore con entrambi i genitori”[3], “l’interruzione di ogni rapporto della madre con il figlio per almeno sei mesi ed il collocamento del minore presso una struttura protetta” .
Appare, pertanto, evidente che, nonostante in nessun punto della sentenza oggetto di commento, si espressamente di alienazione genitoriale ovvero di Parental Alienation Syndrome , l’aspetto manipolativo, assieme agli altri elementi emergenti, quali l’atteggiamento ostruzionistico, la condotta processuale ostile del genitore “predominante” , l’assenza di senso di colpa per tutte le espressioni di disprezzo espresse nei riguardi del genitore alienato, tratteggi un completo quadro probante del “massacro psicologico” del figlio “conteso” , il quale viene iniziato ed assuefatto alla denigrazione incessante del genitore da estromettere.
La sussistenza di tali elementi e l’attenta valutazione da parte del Giudicante, coadiuvato dai consulenti esperti, anche in merito alla inconsistenza della falsa accusa di abuso sessuale, dunque, determinano , necessariamente, l’adozione dei provvedimenti più opportuni per il ripristino del rapporto genitoriale interrotto e la tutela e valorizzazione della naturale bigenitorialità. Anche misure assai drastiche come il collocamento del minore presso una struttura protetta, laddove sia stato accertato il nocumento dell’ambiente familiare, difatti, ben perseguono l’esigenza primaria di tutela del figlio, vittima inconsapevole di genitorialità malata.
[1] Cassazione penale, Sez. III, 8 marzo 2007, n. 121.
[2] Camerini et al. e pubblicato su Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (2010), vol. 77: 127- 137.
[3] Cassazione civile, Sez. I, 8 aprile 2016, n. 6919.
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